Vanità

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Pare che la stagione estiva sia il periodo più proficuo perché l’uomo manifesti uno dei comportamenti che maggiormente lo connotano: la vanità. Ce lo ricorda anche la liturgia della prima domenica d’agosto che mette in guardia da un comportamento particolarmente incongruo in un periodo di forte crisi sociale ed economica, che, piuttosto, richiederebbe stili di vita sobri ed essenziali.

La vanità riguarda noi stessi nella percezione del sé e il mondo esterno nella percezione che ne abbiamo; connota la qualità delle nostre relazioni con gli altri e con il mondo. Siamo vanitosi, quando bramiamo di essere ammirati per le nostre qualità anche senza alcun fondamento, quando, inconsapevoli o no che siamo, diamo credito e importanza a cose prive di senso, potremmo dire, effimere.

La vanità può avere anche un impatto prettamente sociale creando tendenze e innescando comportamenti che facilmente diventano tendenze sociali e mode, soprattutto quando la vanità è ideologicamente plasmata dai valori del mercato, dunque, dell’economia. Per fare un esempio, forse banale, il mercato ci massifica e ci obbliga a determinati standard: i marchi, le griffe ci identificano più del nostro carattere, più del nostro essere. In altri termini è quello che abbiamo che conta. Lo sapeva già bene Gesù quando ammoniva «fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede» (Lc12,15).

Nel linguaggio del Vangelo la vanità è principalmente cupidigia, cioè il desiderio spasmodico di possesso, l’avere a tutti i costi, l’avere:  riempire a dismisura i granai si trasforma in un riempire e gonfiare il proprio ego, per mostrare agli altri quello che si ha. L’avere diventa sinonimo di potere,  il potere è dominio fondato su  leggi di mercato lontane dai principi di solidarietà e condivisione. Potere è anche la possibilità di far ciò che si vuole senza alcuna regola, maggiormente quella etica. La vanità, in nome dell’io, porta fino al possedimento degli uomini da parte di altri uomini. Cosa subdola ancor di più quando impercettibile e naturale ad ogni nostra azione: volere un jeans, una maglia o una borsa griffata a tutti i costi (anche quando non se ne ha la possibilità) vuol dire contribuire alla ricchezza e all’avere di pochi a discapito di popolazioni che non sono ricche, purtroppo, neanche della loro dignità.

Ma la vanità, appunto, ci ricorda che tutto passa e che quello che resta è il bene che avremo compiuto, donando noi stessi aldilà di quello che si possiede e dell’immagine che artificialmente ci siamo costruiti.